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L’obesità? Non dipende dai geni ma dallo stile di vita

Qualche giorno fa è emerso un dato allarmante riguardo l’obesità e la sua preoccupante diffusione anche nel nostro Paese. Infatti se è vero che siamo ancora piuttosto distanti dai numeri fatti registrare negli Stati Uniti, dove il 40% della popolazione soffre di questo disturbo, nel Regno Unito e nell’Irlanda, dove invece si tocca il 30%, non dobbiamo comunque prendere sottogamba i dati provenienti direttamente dall’Istat. In Italia, gli obesi sono l’11% della popolazione, in crescita rispetto al 9% registrato a cavallo del 2000.

I dati dell’OMS

Se il presente è tutt’altro rassicurante, nell’immediato futuro la situazione non sembra migliorare, anzi. “Quel che più preoccupa sono le prospettive: secondo l’Organizzazione Mondiale della Sanità nel 2030 saliremo al 20%. Non solo: oggi il 45% dei connazionali è sovrappeso, nel 2030 la quota supererà il 50%. Ci avviamo insomma a diventare una nazione in cui oltre due persone su tre avranno un bel po’ di grasso in eccesso. Ci sono peraltro differenze territoriali rilevanti: al Sud l’epidemia di obesità è maggiore, soprattutto per motivi socioeconomici perché per esempio in molte aree del meridione fare attività fisica è più difficile per la carenza di strutture sportive, o anche perché una maggior povertà porta ad acquistare spesso cibo spazzatura”, spiega Paolo Sbraccia, direttore del Centro per la Cura dell’Obesità al Policlinico Tor Vergata di Roma e past president della Società Italiana dell’Obesità.

L’obesità è una malattia!

L’uomo è geneticamente pigro: se non deve faticare per procurarsi il cibo, tende a non farlo. Gli europei sono più fortunati degli indiani Pima, selezionati dall’evoluzione per incamerare più energia possibile quando trovavano il cibo: nel vecchio continente si sono alternati nei secoli periodi di abbondanza e carestie, quindi il nostro genotipo è un po’ più “attrezzato” per sostenere un eccesso di energia. Ma solo un po’: se non invertiamo la rotta, con la meccanizzazione di gran parte delle attività e l’enorme disponibilità di cibo siamo destinati ad aumentare inesorabilmente di peso”, rivela l’esperto.

Una prospettiva che potrebbe facilmente concretizzarsi se l’obesità non viene ancora considerata una malattia a tutti gli effetti che può: mutare le funzioni del metabolismo, influenzando livelli di insulina e di altri ormoni; causare uno stato di infiammazione cronico che favorisce l’insorgere di ulteriori disturbi.

Le patologie connesse

Sbraccia lamenta poi il fatto che un numero troppo basso di Paesi hanno riconosciuto l’obesità come una malattia: “Pochi Stati hanno riconosciuto l’obesità come malattia, anche perché farlo porterebbe a dover rimborsare molte terapie; in Italia per ora il Senato ha approvato una risoluzione per riconoscerla come patologia. Certo è che il 90% della spesa sanitaria deriva da problemi che sono diretta conseguenza di fumo, alcol e, appunto, obesità: in media un obeso vive 10 anni di meno e passa 10 anni in più con una qualità di vita scarsa, dovuta a disabilità da chili in eccesso. È vero che ci sono differenze e possono esistere grandi obesi con situazioni relativamente sotto controllo a fronte di persone meno grasse ma più malmesse, ma non si può negare che i reparti di ospedale siano pieni di pazienti con problemi correlati al sovrappeso: i chili di troppo infatti favoriscono per esempio diabete, malattie cardiovascolari, disturbi articolari”.

È arrivato il momento di un cambio di rotta, prendendo in seria considerazione la miriade di studi scientifici che dimostrano il nesso tra obesità e complicanze gravi della salute dell’uomo.

Il metodo di cura migliore

“Anche in un ambiente molto obesogeno come l’attuale alcuni restano magri: nella suscettibilità a ingrassare contano perciò differenze psicosociali, culturali, economiche ma anche genetiche. La maggioranza degli obesi è tale per colpa di più di un solo fattore, la stessa variabilità la vediamo nella perdita di peso: non tutti dimagriscono allo stesso modo né mantengono il peso raggiunto, ed è difficile anche prevedere chi risponderà meglio alle cure. Per tutti questi motivi è improbabile che esista una “pallottola magica” che risolva sempre sovrappeso od obesità; è molto più utile un approccio di precisione sempre più personalizzato, in cui tenere conto di tutti gli elementi che nel singolo paziente possono fare la differenza, dal grado di controllo di fame e sazietà alla flora batterica presente, dalle caratteristiche psicologiche alle differenze di metabolismo”, dichiara Susan Yanovski dei National Institutes of Health statunitensi.

La situazione farmaci

Un farmaco in grado di contrastare l’obesità, facendo sparire i chili in eccesso, non è presente sul mercato e molto probabilmente mai lo sarà. Medicinali come la sibutramina e il rimonabant sono stati ritirati dal commercio: il primo aveva effetti collaterali cardiovascolari, mentre il secondo per i rischi psichiatrici che potevano correre i pazienti (fino al suicidio).

“Oggi le agenzie regolatori sono molto più severe e approvano un prodotto anti-obesità solo se il rapporto fra sicurezza ed efficacia è buono. I farmaci ora disponibili sono utilizzati poco perché sono costosi e non vengono rimborsati: trattandosi di prodotti da assumere cronicamente, sono pochi i pazienti per cui si scelgono. C’è però la prospettiva che arrivino nuovi principi attivi, in un prossimo futuro”, dichiara Paolo Sbraccia.

L’ultimo studio in materia

Apparso sulla rivista Physiological Measurement, uno studio condotto da un gruppo di ricercatori del Centro della Complessità e i Biosistemi (CC&B) dell’Università di Milano, ha dimostrato che fattori quali ambiente e stile di vita seguito sono molto più determinanti nello sviluppo dell’obesità rispetto ai geni ereditati.

Precedenti studi avevano teorizzato che questo disturbo potesse avere un’origine genetica. Un’ipotesi che, almeno ad oggi, vale soltanto nel 5% dei casi più seri. Il solo contributo genetico non è sufficiente a giustificare la maggior parte delle variazioni individuali dell’indice di massa corporea, che invece sono da attribuire ad elementi ambientali e di stile di vita.

L’obiettivo della ricerca

Francesc Font-Clos, ricercatore al CC&B nonché autore principale dello studio, ha rivelato che: “In uno studio precedente avevamo identificato una serie di 38 geni la cui attivazione è correlata con diverse caratteristiche associate all’obesità: infiammazioni, cancro, disturbi della riproduzione e dell’umore. Abbiamo quindi cercato di capire se questa sorta di firma genetica potesse aiutarci a indagare il ruolo che i nostri geni giocano nello sviluppo dell’obesità”.

Grazie al supporto degli altri ricercatori, Font-Clos ha confrontato la lista di geni con quelle che ulteriori studi hanno collegato alle variazioni dell’indice di massa corporea. Un parallelo reso possibile da un algoritmo messo appunto al CC&B, che ha consentito di analizzare 600 campioni provenienti da un database britannico di gemelli. Proprio lo studio di coppie di gemelli caratterizzati da differenti indici di massa corporea rappresenta una ghiotta opportunità per meglio verificare la relazione fra patrimonio genetico e obesità.

I risultati

Dall’esito delle analisi è stato possibile evincere che la firma genetica dell’obesità è collegata all’indice di massa corporea alla massa grassa. I ricercatori hanno inoltre scoperto che nei gemelli monozigoti la diversità nell’attivazione di questa firma genetica si deve non al loro genoma, bensì alle variazioni nella massa corporea. Questo implica necessariamente che non è il genoma a causare l’obesità, ma che è il disturbo ad attivare geni coinvolti nei processi di infiammazione o variazioni di umore.

I nostri risultati dimostrano che l’ambiente ha un ruolo più importante del genoma nello sviluppo dell’obesità. Non si diventa obesi perché si ereditano alcuni geni sfortunati. Non è questione di sfortuna, ma di condizioni che possono essere cambiate. Per questo è importante studiare l’obesità in un contesto più ampio, che includa sia fattori interni che esterni, e le loro interazioni reciproche”, ha aggiunto Caterina La Porta, docente di patologia generale al Dipartimento di scienze e politiche ambientali dell’Università di Milano e coordinatrice dello studio.

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